Nel ricchissimo e variegato panorama delle proposte espositive di Milano in quest’ultima stagione, è su tre di esse, in particolare, che ci piace fare una breve riflessione: “Le dame dei Pollaiolo”, “Boldini: parisien d’Italie”, “Segantini”; tre mostre così diverse per stili e contenuti eppure con un filo rosso che le lega e, in qualche modo, le assimila: il mondo femminile.
Sono nobili dame rinascimentali, rimaste anonime, quelle che il pennello del solo Piero del Pollaiolo (non già in collaborazione con suo fratello Antonio, come nella ormai superata generica attribuzione), ritraeva, nella seconda metà del Cinquecento, dando vita a quattro dipinti sorprendenti, riuniti, in questa occasione, per la prima volta insieme, destinati, allora, alle case di ricchi privati e conservati, oggi, uno a Berlino, uno a New York, uno a Firenze ed uno, universalmente noto, a Milano, nella casa museo Poldi Pezzoli, che permanentemente lo ospita e che orgogliosamente ne ha fatto la propria icona.
Quattro “giovani dame”, come la definizione dallo stesso Pollaiolo a tutte attribuita, di alto lignaggio, ritratte di profilo, diverse nelle loro peculiarità, così come quasi certamente diverse sono le loro età e le fasi di vita: ragazza, fidanzata, sposa, donna matura. La sottilissima linea che ne disegna il contorno fa emergere i volti da uno sfondo anonimo, privo di connotazioni, su cui si fissa per sempre un ideale di naturale e statica bellezza, pur nella corporeità di tratti somatici anche imperfetti. Ma ciò che rende queste dame, dal fascino un po’ distante e idealizzato, inequivocabilmente parte del loro mondo reale sono i sorprendenti abiti, le ricercate acconciature, i preziosi gioielli: i capelli sono raccolti con maestria, anche con l’aiuto di un velo impalpabile e trasparente o di una fascia di stoffa, fissati da fili di perle e nastri sottili che formano dei leggeri diademi; gli abiti sono sontuosi, importanti, corpetti in broccato, velluti cangianti, pizzi elaborati; gli splendidi gioielli, infine, identificano queste giovani donne come sicuramente appartenenti alla ricca nobiltà rinascimentale. Un inno alla femminilità.
Che contrasto con le vivaci, guizzanti, impertinenti, disincantate e civettuole donne che il grande ferrarese Giovanni Boldini ritrae nella Parigi della belle époque! Il loro sguardo si offre a quello di chi le osserva e sembra in attesa di un cenno di risposta: esce dal quadro, ognuna di loro, e ti attrae e ti coinvolge nelle sue attività quotidiane, nei suoi momenti di intimità, mescolando ingenuità e malizia; anch’esse sono donne benestanti, appartenenti alla medio-alta borghesia della Ville Lumière e anche nobildonne, perfino principesse; sfoggiano abiti colorati, svolazzanti, cappellini o larghe tese, scialli fioriti, leziosi ombrellini; a volte languidamente adagiate su poltrone o divanetti, a volte su una panchina di un parco fiorito e verdeggiante; nelle pennellate scattanti e vibranti di colori, la loro caratteristica è sempre la vitalità, il movimento, elementi sicuramente peculiari della effervescente vita parigina di quegli anni. Non ha egauli, Boldini, nell’afferrare l’essenza più vera e vitale della femminilità, e ciò lo rese uno dei ritrattisti più amati dalle donne del suo tempo e fece scrivere al critico Thiébault-Sisson, sul finire del secolo, che “nell’arte scabrosa di accentuare, per l’imprevisto di una movenza, per la posa inaspettata, talvolta azzardata, la grazia e la nota seducente delle sue modelle, Boldini non consosce rivali”.
Solide, corporee, concrete, vere, profondamente umane e, contemporaneamente, pervase da un senso di sacralità: ecco le contadine del Segantini, piegate dalla fatica del lavoro nei campi, indaffarate, cappello in testa per ripararsi dal sole, ad agganciare le mucche alla stanga, appisolate per la stanchezza nella penombra di una stalla. Esse fanno parte integrante della natura madre che le accoglie, le imprigiona, le racchiude, le condanna e, insieme, le assegna ad un ruolo di significato universale: esse vivono in un tutt’uno con la terra eppure sono quelle che si elevano più al di sopra di tutto ciò che è terreno. Loro sono depositarie del segreto del perpetuarsi della vita e in questo non c’è alcuna differenza tra la “madre umana” e la “madre animale”, nessuna prevarica l’altra, ma entrambe seguono, con una sorta di rassegnazione, il loro ineluttabile destino, scandito dalla ciclicità delle stagioni, dalle andate e i ritorni, dalla periodica ripetizione di azioni sempre uguali a se stesse. E’ con commozione ed una sorta di malinconia che, osservandole, vorremmo poter entrare anche noi in quella maestosità della natura e, come loro, farne parte senza gerarchie, senza privilegi, solo con una profondissima, universale empatia.
MARGHERITA CANZI
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